Per dirimere il problema palestinese, l’errore peggiore dell’Occidente è dare ragione a qualcuno
La politica occidentale, se realmente vuole essere utile a una soluzione a Gaza, deve mantenere lucidamente le distanze da entrambi gli attori. Non sempre esiste chiaramente un cattivo e un buono. Né, da esterni, si possono prendere le parti di uno piuttosto che dell’altro. Gaza è uno di questi casi, in cui bisognerebbe evitare di trasformarsi in ignari attori della retorica distorta del vittimismo selettivo.
Quando Mousa Abu Marzouk, dirigente di Hamas e capo dell’ufficio per le relazioni estere del movimento, dichiara al New York Times nel febbraio 2025: “Se avessi conosciuto le conseguenze del 7 ottobre non lo avrei sostenuto”, non si tratta di pentimento. È una lucida ammissione che, con conseguenze minori, lo rifarebbero. È la logica cinica del calcolo politico: se il costo in vite fosse stato accettabile, la strage sarebbe stata replicabile. Un messaggio pericoloso, amplificato da una parte dell’Occidente che continua a confondere il terrorismo con la resistenza.
E ci si chiede: ma cosa pensavano che sarebbe successo? Mandi 3.000 uomini armati a compiere uno dei massacri più efferati degli ultimi decenni – oltre 1.200 morti, stupri, bambini rapiti e strangolati – e ti aspetti che le conseguenze le paghino gli eschimesi? La popolazione di Gaza è stata condannata in anticipo, non da Israele, ma dalla dirigenza di Hamas, che sapeva benissimo a cosa andava incontro.
Le guerre portano distruzione. Chi le inizia, lo sa e i leader palestinesi non piangono perché non vogliono la guerra, ma perché la perdono. Sempre. Dal 1948 a oggi, ogni conflitto provocato da loro si è concluso con una disfatta e ogni volta si ricorre alla stessa strategia: chiagni e fotti — piangere per attirare consenso, soprattutto fuori dal mondo arabo, dove ormai sono sempre meno quelli disposti a crederci.
Nel frattempo, i capi di Hamas vivono protetti in Qatar, al caldo e lontani dalle bombe, mentre la loro gente muore sotto le macerie e una parte dell’opinione pubblica occidentale li giustifica, li assolve, li innalza a vittime. Ma non si può trasformare un carnefice in vittima solo perché ha perso.
Il termine genocidio viene usato a sproposito. Israele sta conducendo una guerra. Discutibile nei tempi, nei modi, ma pur sempre una guerra in risposta a un attacco senza precedenti. Usare il termine genocidio, senza contesto e senza proporzione, equivale a banalizzare il significato stesso di quella parola. Non c’è sterminio sistematico della popolazione palestinese: c’è un’operazione militare contro un’organizzazione terroristica che usa i civili come scudi umani.
È giusto chiedere una tregua, è giusto chiedere la pace, salvare i bambini e i civili. Ma la politica estera, soprattutto quella fatta da amministratori locali, non può diventare lo strumento per santificare una sola parte. Il conflitto israelo-palestinese non ha innocenti assoluti. Chi ha la pretesa di rappresentare il bene assoluto mente a sé stesso e agli altri.
E soprattutto: cosa c’entra tutto questo con i sindaci e le giunte comunali? Perché a Firenze si organizza una manifestazione di piazza su Gaza, con il patrocinio delle istituzioni, mentre i cittadini chiedono sicurezza nei quartieri, decoro urbano, trasporti funzionanti? La politica locale dovrebbe occuparsi prima di tutto di problemi locali. L’impressione è che, su temi internazionali, si cerchi solo visibilità, cercando consensi tra chi è più sensibile a certe battaglie identitarie.
Sì, Gaza deve essere libera ma prima di tutto dal terrorismo palestinese e da chi ha sempre usato il proprio popolo come carne da cannone. Solo allora si potrà parlare davvero di pace, giustizia e libertà.
Prendere le parti di uno piuttosto che dell’altro non solo non aiuta, ma serve solo a confondere il pastore maremmano con il gregge. La politica estera e gli eventi del Medio Oriente sono materia complessa e andrebbero sempre trattati con cautela e come materia altamente pericolosa. Fa specie che un’amministrazione locale come quella di Firenze sposi e manifesti solo per una parte: quella che, agli occhi di un’opinione pubblica distratta e disinformata, può apparire come l’unica vittima di un conflitto in realtà iniziato da chi era al comando e al governo di quella parte del Medio Oriente.
Servirebbe maggiore prudenza e meno strumentalizzazione, se realmente si volesse — un domani — poter aiutare entrambe le parti a cercare una soluzione: temporanea prima, e sperando in un miracolo, definitiva poi.
Per noi, manifestazioni pro-Pal come quella di ieri servono solo ad allontanare le soluzioni di un problema che non si vuole — e non si può — capire con gli occhi occidentali.
In politica internazionale, e in particolare in quella medio-orientale, non si può ridurre tutto a bianco o nero. Farlo significa o non essere preparati e adeguatamente informati, oppure voler solo strumentalizzare una situazione che ha, indubbiamente, i connotati di una tragedia umanitaria.